Il film si apre con una carrellata di sequenze che, con delicatezza e discrezione, trasportano lo spettatore nella vita quotidiana di un gruppo di donne molto diverse per cultura, nazionalità, età e stile di vita. Le accomuna il lavoro: tutte, infatti, sono operaie nella stessa fabbrica, chi da pochi mesi, chi da una vita. E la fabbrica sta per essere venduta, dai proprietari italiani, tre fratelli ormai anziani e senza troppi scrupoli, ad un colosso francese, rappresentato da una donna d’affari che di scrupoli se ne fa ancora meno dei suoi colleghi italiani. Il nuovo padrone pone nuove condizioni ai dipendenti e il consiglio di fabbrica è chiamato a valutarle e a decidere se accettare e rifiutare. In ballo c’è la vita di tante famiglie, molte delle quali appesa a quel misero stipendio come all’unica speranza di salvezza dalla povertà e dalla fame.
Sopravvivere al presente o generare il futuro?
Intorno a questa decisione e al suo peso umano e sociale ruota tutta la vicenda del film, che si ipira ad una storia realmente accaduta in Francia a Yssingeaux ed è tratto dall’omonimo testo teatrale di Stefano Massini. Il film, dunque, mette a tema l’erosione progressiva a cui sono stati sottoposti negli ultimi decenni i diritti dei lavoratori. La miseria e la disperazione in cui tante famiglie sono state gettate dalla crisi economica e dall’aumento della disoccupazione, spinge le persone ad accettare qualunque condizione, pur di mantenere un posto di lavoro conquistato a fatica e sempre minacciato dall’ombra della crisi. Più in profondità, il film spinge a riflettere sulle condizioni di una vita degna e sull’urgenza di lottare, non soltanto per sopravvivere al presente, ma anche per ottenere un futuro migliore per chi verrà dopo di noi.
